Letteratura Milanese
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Fabio
Varese
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L’autore descrive la propria abitazione
Per una meretrice che lo avea abbandonato Al è on quaj
trenta di che so' in preson Scolté, se vorì
rid, che ve vûj dì Opere da
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Biografia
Fabio
Verese è nato, probabilmente a Verese, intorno al 1570, da una famiglia
abbastanza agiata. Della sua vita sappiamo poco: è stato maestro di cappella
presso il Duomo di Milano, e doveva
risiedere nei dintorni di S.Stefano, dove un tempo sorgeva il “Laghetto”,
vicino al Verziere. È morto nel 1630, anno della famosa peste di manzoniana
memoria, come riporta il Registro del Magistrato alla Sanità: “Fabius
Varesius ann.60 ex Febre obiit”. Della sua produzione scritta ci sono rimasti un volume di canzonette italiane e una trentina di sonetti milanesi. |
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Giudizio Critico -
Letterario
Fabio Varese è definito sovente come un primo “poeta maledetto”, o “bohemienne”, di stampo ambrosiano. Ad avvalorare questa definizione d’autore, per così dire, clandestino, ha storicamente contribuito la censura che ne ha segnato o celato i testi. In realtà il Varese dovette condurre una vita ben più agiata di quella che sembra trasparire dalle sue poesie, essendo originario di una famiglia benestante che ben curò la sua educazione sia in campo letterario che musicale. La stile e il contenuto della sua opera debbono essere dunque ricondotti a una scelta letteraria di tipo stilistico e retorico, tra l’altro abbastanza in voga al tempo. Motivo di questa atteggiamento artistico è l’insofferenza verso la normalità di una tradizione poetico-letteraria vista sempre più standardizzata e forzata. Il maledettismo del Varese è da ricondurre, secondo Franco Brevini, a quel movimento anticlassicistico secentesco che s’inserisce nella tradizione inaugurata verso la fine del cinquecento dal filosofo Giordano Bruno e dall’estroso letterato Pietro Aretino. Caratteristica particolare del Varese sono le Risposte ch’egli fa seguire ai vari sonetti, nei quali, sempre in rima, rimprovera se stesso dei lamenti appena esposti. Fabio Varese può considerarsi l’inauguratore e il padre di quel filone della poesia colta milanese di stampo umoristico-verista che sarà poi portato avanti e raggiungerà il culmine del suo splendore con Carlo Porta. Opere
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L’autore descrive la propria abitazione No m’ domandè de grazia
donde stò che maledetto sia stó in d’ona cà dov’
no poss dì né nogg mai repossà del
fregg e del frecass e del spuzzó; ona
cà sott i copp che quand ghe vó gh’hó
semper scient basij da inumerà, dò
camer dall’invers dov’ mai no gh’dà da
nessun temp dell’ann on pó de só; par
mezz ai beccarij, par mezz al foss e
se sent i becchè co’ i sû folgasg che
van semper taiand carn’e baloss, dond
se ved nomà donn che lava strasg; de
più andà ai fenester mai no poss che
no veda a voià sempr’on pettasg; su
i scar millj spegasg de merda d’i fancitt d’i mé visin, che
caghen anch d’i vûlt sott al camin. In
l’ora del mattin gh’hó pû sempr’on concert de
resegott, de carr e de carret on terremott. Ma
quest el è nagott respett
al ciass che fan i barchirû i
vedei de becché co’ i vacch e i bû. Tra
l’olter gh’è on fiû d’on
vesin che no’m lassa mai dormì ch’al
rasgia dalla sira in fin’ al dì. Ma
cazz mì vûi fusgì e
portà via ona nogg la paia e’l legg: malett sia ‘l patron, la cà co’l tegg. |
Non domandatemi, di grazia, dove sto (di casa) che sia maledetto, sto in una casa dove non posso mai riposare giorno e notte dal freddo e dal fracasso e dalla puzza Ona casa sotto le tegole (nel sottotetto) che quando ci vado ho sempre cento scalini da conteggiare, due camere dall’altra parte (verso nord) dove non si dà mai in nessun tempo dell’anno un po’ di sole. Per metà rivolta verso le macellerie, per metà verso il fossato e si sentono i macellai con i loro coltellacci che son sempre dietro a tagliare carne e ossa, da cui si vedono solo donne che lavano stracci; per di più non posso mai andare alle finestre che non veda sempre a svuotare un vaso da notte sulle scale mille scarabocchi di merda dei bambini dei miei vicini, che a volte cagano anche sotto al camino. Nel primo mattino ho poi sempre un concerto di falegnami, un terremoto di carri e di carretti. Ma questo è nulla rispetto al chiasso che vanno i barcaioli i vitelli da macello con le vacche e i buoi. Tra l’altro c’è il figlio d’un vicino che non mi lascia mai dormire che raglia dalla sera al mattino Ma cazzo io voglio fuggire e una notte portare via la paglia e il letto: maledetto sia il padrone, la casa col tetto. |
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Commento: Il tema del lamento per la
povertà e la scomodità dell’abitazione del poeta rappresenta uno dei topos caratteristici
di questo tipo di poesia di stampo giocoso piuttosto diffusa nel seicento.
Secondo lo Stella questa poesia sembra risalire, anche stilisticamente ,al
primo periodo della produzione del Varese. La casa del poeta doveva trovarsi
nelle vicinanze della Fabbrica del Duomo, a cui si possono far ricondurre i
rumori lamentati dei falegnami e carpentieri (resegott) e dei barcaioli che
solcavano il naviglio nei pressi del Laghetto di Santo Stefano, portando i
marmi per la costruzione della Cattedrale. |
Il laghetto di
Santo Stefano in una stampa settecentesca |
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El stall dovè te sté l'è da
par tò, anz mi me maravûj e s' no só
già chi sia costù che t'habbia
tolt in cà essend inscì porscell e
inscì gogò. Ch'occorr te baiet e t'
rompet el cò co'l fà sonitt e tutt el di
rasgià. S' te g'hé parigg basij da
innumerà, rompet almanch el coll e
borla giò; o tû on martell, smaraiet
prest i oss e spettasciet la merda ind
el bottasg e fatt almanch fini da crepà
'l goss. Te mostret pur a manaman 'l busnasg o poverasg fottú, te no g'hé
indoss in tutt per tutt per quatter
sold de strasg; e nomà pettegasg se ved in la toa cà, brutto
mastin, e stronz per tutt
ch'ammorben i visin. De mûd, el mé strascin, te pû grattatt el cû inscì
da biott e segná i cantarij cont i
strambott. No l'è i resegott che te daghen fastidj nè i
fiû, ma l'è 'l dormi co' i piûgg
senza lanzû. Ma par dà fin incû a sta libeba, olter no vûj
di nomà perchè só che te vû
fusgi. Ma cazz, credill a mi, te t'ingannet coion, che al
tò despegg el patron vûr el figg e tût el legg. |
La stalla dove te ne stai per
i fatti tuoi, io mi meraviglio e non mi so
immaginare chi sia costui che ti abbia
preso in casa essendo tu così porcello e
così scostumato. Che bisogno c’è che abbai e
ti rompi la testa Facendo sonetti e ragliando
tutto il giorno. Se hai parecchi gradini da
conteggiare, rompiti almeno il collo e
casca giù; o prendi un martello, picchiati
presto le ossa e spiaccicati la merda nella
pancia e finisci almeno di farti
scoppiare la gola. Mostri quasi pure il culo o poveraccio sfottuto, non
hai addosso che quattro soldi al massimo di stracci; e soltanto inzaccherature si vedono sulla tua casa,
brutto scellerato, e |
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Note: 1.
stall: " stalla "; ma " stallo " è il luogo occupato dai coristi.
IL continua in questa risposta la presenza della lingua italiana, anche a
livello di variazioni fonetiche e sintattiche. tò: i vv. i , 4, 5, 8
propongono rime in -ò e non in -ó (= uu) come nella proposta. 2.
" mi domando stupito e proprio non so chi sia questo incosciente unico
che ti ha preso in casa ". maravûj: cfr. nel Maggi maravoeuiass da
maravoeuia, forma paronomastica di maraveia (per affinità a maravoeuia “malavoglia”). 4.
gogò: nel Varon I I « Uno senza boni costumi e creanza ». 5.
Ch'occorr: " che bisogno c'è " (cfr. II.2, 9). baiet: " abbai
" da riferire a prove di canto, rasgià " cantare " (che
colloca al centro del chiasmo l'operazione poetica, il rompersi la testa per
fare sonetti). 7.
parigg: " parecchi ". 8.
rompet... giò: specie di hysteron proteron. smaraiet: denominale da marascia
" marraccia, spada smaraggià
è " dar dentro, picchiar alla cieca ". Il Bellati propone la
facilior mascaiatt per evidente suggestione del Maggi. Si resiste alla
tentazione di correggere prest in pest. 10.
spettasciet: " spiaccicati ". bottasg: " ventre "; Varon
5, 11.
e fatt... goss: e fatti almeno scoppiare una volta per tutte la gola 12.
Te... busnasg: e quasi mostri il culo ", per l'usura degli abiti: cfr.
III, io; si veda anche Varon 6 e Cherubini s.v. cuu: " mostrare il culo
" diviene per metafora " andar in malora ". 15.
pettegasg: " inzaccherature 16.
mastin: « un scelerato degno d'esser frustato » Varon 14. 18.
striiscin: cenciaiuolo. 20.
cantarij: ghiandole, e ghiandole per eccellenza sono i testicoli. Anche nel
Maggi segnà i cantarij significa " esorcizzare le ghiandole ", per
farle scomparire. strambott: la formula deprecatoria viene definita con un
tecnicismo metrico (non pertinente il rilievo del ' radicale ' stramb-). Nel
verso è comunque un preciso riferimento alla professione musicale (cantarij è
anche " cantorie ") del Varese. 24-25.
Ma par ... libeba: " Ma per concludere oggi questa fi lastrocca ";
libeba " ribeba " è anche nel Maggi con i medesimo significato di
" tiritera, filastrocca ". |
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Per una meretrice che lo avea abbandonato Va’
mò porca su i forch, va’ che t’hó intes, va’
mò int i magazzin co’ i tû berton, che
te ne trovare più on coin inscì
dolz com’è stà Fabj Vares. Va’
che hó fed da vedtt no passa on mes Dré
l’Arcivescovà su quij canton Co’l
pignattin con drent quatter carbon Piena
de piûgg, de rogna e mal frances. Bagassa,
ch’accadeva a caragnà Quand
te cavava e dì “No me abbandona, car
el mè ben te staró sempr’ in cà” ? Tì
te favet la sempia e la coiona, “No
soj la toa Telina e tì el mè pà?”: la
forca che t’impicca, bolgirona. L’è tròpp
el ver, te sé’ on dolz coion A
cred che mì t’ voeress stà sempr’ in cà Dond no s’ parla de bevv né de
mansgià, Nomà
sonà ‘l legutt e fa ‘l buffon. E
cred mì anch te fust inscì mincion Te
t’ pensass che m’ voress innamorà Par
dì “Son toa Telina e tì el mè pà”, mûr
da chigià per datten on boccon. Razza
de can, che occor a fa el gradass Con
dì “G’hó in cà d’i ròbb da dagh del vù”, s
te no gh’è pû da fagh menà I ganass? E
quand te ved che te volten el cù, te
dis c’hin bolgironn e c’hin bagass? Te
n’ mentet per la gora, becch fottù. |
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III Al
è on quaj trenta di che so' in preson Al è on quaj trenta di che
so' in preson mi pover Zinibrus nassú in
Vares imputá c'hó fagg liga co' i
Frances: e s' no è « persciò ver, in
conclusion ». L'è che l'è stagg on cert
Medegh barbon c'ha dagg commission che
fudess pres e miss ind on gabiott longh e destes, a tormentamm, e senza
remission. M'han già dagg trenta vûlt
el fûgh ai pé, e s' m'han fà sudà 'l zuff,
mostra 'l busnasg, che cossa no m'han fá sti
can giudé. Passensa, c'hó pur anch
intregh i brasg! L’è mò ver ch'al me manca
on pó d' dané da paga i sbirr, el boia e
'l cadenasg: ma se poss portà i strasg fû da chilò, vûj che chi va
e chi ven faga scusa 'l barbon par mugg de fen. Note : 2. Zinibrus: su zinivell " cervello " si
innesta brus " bruciato "; si potrebbe, meno bene, leggere bus
bucato ". nassú in Vares: nato nella città di Varese patria dei bosin; o
anche nato nella famiglia Varese ". 3. liga co' i Frances: il timore dei Francesi era
progressivamente cresciuto nella Milano spagnola dal regno di Enrico IV alla
guerra di Casale. Ma il Varese potrebbe suggerire e giocare su un equivoco:
lui, infermo di mal francese, è stato imprigionato come ' navarrino '. 4. e s` no... conclusion: il Varese utilizza la
congiunzione coordinativa e s' per introdurre - contro le norme - una
proposizione negativa, o meglio per negare la formula affermativa finale di
quella che doveva essere l'arringa accusatoria: « e non è " perciò vero
in conclusione " ». 5. Medegh barbon: " medico briccone ";
barbon è variante paronomastica di birbon, che ha nel milanese, fino al
Manzoni, una netta accezione di malvagità. Con barbon comunque il Varese
sembra indicare un suo nemico personale: cfr. sonn. VIII, 3; XXI, 4. gabiott:
" gabbia, prigione ". 9-10. Tra i procedimenti di tortura in uso, il
" dare il fuoco ai piedi "; si potrebbe poi intendere al figurato,
in un climax di sottintesi: " e mi hanno fatto rizzare i capelli e
ridotto all'estremo ". Per busnasg cfr. 1.2, 10. 11. can: sopravvivenza popolare dell'epiteto
consueto di " giudeo " nei testi medioevali. 12. hò... brasg: " ho le braccia integre
", nonostante (o per non aver subito) tratti di corda. 13-14. I regolamenti giudiziari in vigore a
Milano, come provano i continui divieti delle gride, tolleravano che
l'appaltatore delle carceri si rivalesse sui prigionieri: ma il Varese si
mostra persuaso di aver goduto un trattamento di favore. Si confronti con la
parallela situazione di Meneghino nel Falso filosofo, 111, 1057 sgg.: « El
Guardian respond, e i mé onoraerij? / E mett a man sto prolegh: / Tant par
podestaria, tant par register, / E tant par caienasc... »: e del Bongee «
Anca la bona man? », Porta XXXVIII, 479 16. chilò: " qui "; forma arcaica, ha
due sole occorrenze nel Teatro del Maggi. chi... ven: " chiunque ". 17.
faga... de fen: " faccia bastare il barbone come letamaio questo era
spesso l'utilizzo dei mucchi di fieno sistemati nei cortili o sotto i
porticati. Si potrebbero, per altro, produrre altre interpretazioni ("
come giaciglio " o anche, in rapporto a VIII, 15-17, " come
esca" del rogo). |
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IV Signora, a tugg quij c'hin
amara vù g'hí '1 remedj in cà da
fáj guarì, de tugg i má, cornè saravv
a dì de fevra de mazzucch e
slomborá. Perchè no gh'è mò anch on
quaj cotà int i vost busserij da damm
a mi, ch'a tragg a tragg al par
vûbbia mori, e rest' inlò d'i vûlt
bell'e tirá? On pó de compassion,
speranza mia desimm « El me car tos,
veri domattena che vederemm stó ma da
casciall via ». In quest de mezz scierché
quaj cossorena, rughé on pó ben int i bus
della bottia, che trovarì la mia
medesena. Ciapè on pó in man la pena, e ve pregh mettí drè sul
vost listin questa recetta fá per Battìstin. Note: 1. Signora: variante italiana di sora XI, 1. Che
si tratti di speziara - femminile di spezié " speziale " - è
testimoniato dal solo ms. ambrosiano, ma in sintonia con la bottia delineata
nel sonetto. La invocazione alla " signora " ritorna al v. 9, un
poco più confidenziale, ma sempre nel medesimo codice italiano, speranza mia. 4. fevra de mazzucch: " febbre di testa
"; cfr. Porta Lava piatt xiv, 17: « Ma i maa s'hin de mazzucch, s'ha
pari a dì ». slomborá: " lombaggini 5. on quaj cotá: " un qualche cosa ". 6. busserij: " cianfrusaglie "; lett.
ciò che si tiene nella bussera, " bussola ". 7-8. al par... tirá: l'equivalenza della ia con la
3a persona sing. nel congiuntivo di volere, suggerisce di proporre per Abbia,
più che un soggetto " io ", un soggetto " quello " (se
non è suggestione del portiano « on cazz bell e tiraa » xcv, 7). a tragg a
tragg: " a momenti ". inlò: " lì ". 10. domattena: cfr. 12 cossorena; la desinenza
-ena (rispetto a -ina) è normale nel Prissian e ancora nel Maggi. 13. rughé... bottia: " frugate per bene nei
buchi della bottega ". ben int: sinalefe; cfr. VI, 5 « me ven inscì »; e
IX, 17 « te ven in cà ». 14. L'ipometria non sussiste quando si legga - sia
pure malvolentieri - mia bisallabo. 16. listin: " lista dei conti, fattura
"; cfr. Maggi Ff 1, 185-87: « L'è el mè volt come quel d'on operaerij /
Quand al porta la lista del lavó, / Che in vedell a vegnì solta i doró »; e
Int. 1, 7: « Domà giustà la lista al spizié ». 17. Il verso sembra da leggere in rapporto alla locuzione (del Balestrieri e del Porta cxxxvi, 6) fà i cart col Battista " far l'amore ". Il referente di Battistin è dunque anticipato dal rinvio pronominale del v. 7 (« al par »). |
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V. Scolté, se vorì rid, che ve vûj dì Scolté, se vorì rid, che ve
vûj dì coss'ha fá ona fantesca
forscellú, ch'in verità ghe scarparevv
el cú a sta bolsgia s' l'havess a
fà con mì. L'heva on moros in legg fin
l'olter dì, anz l'oltra nogg al tacconava
sù ona robetta a dill da dagh
del vù per no menass el cazz com'
fó mò mì. Che fala sta fantesca
bolgirona che ved che quel moros è on
pó poltron? Ghe ven compassion, quella
coiona, e s' va a tû on scoldalegg
pien de carbon par scoldagh i calcagn, e
sta poltrona la ghe cascé sù '1 fûgh ind
i coion, e s' le scottè de bon, utrum demm dì: che le
trattass costù da bolgiron desziferé mò vù. Note: 1.
Scolté: " Ascoltate ", incipit consueto in forme poetiche
narrative; per il Varese è l'entrata in contatto con la piccola cerchia dei
suoi uditori (cfr. anche I.1 e XVI). 2.
forscellú: " forcelluta " cioè biforcuta. t voce arcaica che il
Tommaseo segnala nel Dittamondo e nel Commen!o dell'ottimo. 4.
bolsgia: più che " pancia " (Cherubini), è da leggere come
deverbale di bolgirà, e dunque sinonimo dei vari epiteti dei vv. 9, 11, 13; 6.
tacconava: " rappezzava ' ; nel Varon è « Acconciar le scarpe, o vesti
con pezze » (taccon). Qui, come a XII, 8 e XIII.1, 4 ha valore traslato e indica
l'atto sessuale dal punto di vista maschile. robetta: è nel Maggi Rime XXIV,
73 forse con una lieve allusione sessuale. 13-14.
Le rime (con l'aggiustamento di cui in apparato) ripropongono i medesimi
lessemi di 10-11, invertendo però i generi e incrociandone i significati:
all'interno i metaforici (coiona: poltrona) all'esterno i propri (poltron:
coion). 16.
utrum: " tutti e due "; voce latina ricorrente nel linguaggio
giuridico, ma proponibile alla competenza popolare (e prolessi stilistica del
desziferé). |
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VI. Messé pré Zopp, al m'è
soltà on stremizj che no poss incordà sto
vioron: de grazia soné on pó vù la
canzon ch'al è forza che vaga ind
on servizj: me ven inscì al nas, com'hì
finí i offizi, che vûren fan cantà falsa
bordon tutt pien de ligadur del settem ton, e mi vûj fà ona fuga de
caprizj. M'arecomand Cingard e
Cingardett e vù signor Ottavio
Nicorin, io messe Ippolet, Battista e
'l Spagnolett, a revedess Sargent del
viorin e vù messé Ieronim del
cornett, retiremes al Domm lì su i
scarin che per ess lì visin vûj che daghem a ment se
sti toson vúren lassass ligà, menà in
preson. Battemm prest el taccon fradell, andemm inscià, só
quel che digh, andemm che no '1 gh'è temp
da perà figh. Sentí quel che ve digh, me mandari pú a dì stand in
preson com'è passa l'istoria e la canzon. Note: 1. pré Zopp: " prete Zoppi ", forse il
responsabile della Cappella di S. Gottardo, il dominé di XIX. 1, 21 2. incordà: "accordare"; cfr. XV.2, 3. 4. servizj: " necessità corporale ",
legata allo spavento più che " servizio, affare " (cfr. Maggi Mm
111, 576-77: « L'è andx par on sarvizij 1 (Reverenzia parland) »). 5-8. " Mi sa proprio, mi puzza che, finite le
funzioni, vogliono far cantare a noi un falsobordone, tutto pieno di legature
del settimo tono, e io voglio fare una fuga di capriccio ". L'unico dato
certo in questa quartina di non facile interpretazione, è la bisemia dei
tecnicismi musicali, con la loro allusività a legamenti, bastonate, fughe. 9-13. Nei registri della Cappella musicale del
Duomo del secondo semestre 1595 risultano tra i " cantori straordinari
assunti per la festa della Madonna " un Hippolito tenore, un Pietro
Francesco Cincarti (che ritorna in data 8 maggio 1596) e un figlio di
Nicolino, soprano. Il Cincarti è senz'altro il Cingarti, giovane perché non
ha a fianco il Cingardett; il figlio di Nicolino soprano, è certo l'Ottavio
Nicolino, che morirà (tenore o basso) nel 1627: una lettera dell'Archivio di
Stato di Milano (Fondo Culto, p.a., 1079) ci fa conoscere come Giovanni
Battista Lambrugo, che da 22 anni è nella Cappella, chiede l'incarico di
maestro del defunto, da poco, Ottavio Nicolini (precisando di accettare un
compenso di sette ducatoni di contro ai dodici percepiti dallo scomparso). 14. retiremes... scarin: gli scalini del Duomo,
frequentati da perdigiorno, mendicanti, prostitute (cfr. IX, 8 e Maggi Mm 1,
664: « l'Accademia d'i scalin del Domm »). Si deve pensare che l'invito del
Varese è raccolto solo da pochi ' vecchi ', mentre i giovani, sti toson,
vogliono rimanere sul posto. 18. Battemm... taccon: " svignamocela ";
Maggi Bb 111, 203. 19.andemrn inscià: " andiamo via, scappiamo
"; Mm pr.11, 3; Pp 11. 20. peràfigh: la locuzione nel Maggi significa
"non essere da meno, non temere confronti qui vale " contarla su,
perdere tempo in chiacchiere 23. mandarí... stand: il Varese sottolinea l'urgenza del " si salvi chi può ", attualizzando l'ipotesi della prigione, per i curiosi che vorranno assistere alla conclusione della vicenda (istoria) e della esecuzione musicale (canzon: cfr. v. 3) |
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VII Oh cazz, semm an' mò chì
con sto sonaj che tutt el dì me sta a romp
el scervell: vala mò on pezz andà a baià
in bordell, testa de
balotron, de paramaj ? No sét comè la va da dì d'i
baj, che t' faró stà da pé,
master Scinell, poetta dottorá lì al
Cantonscell e incoroná cont ona resta
d'aj? Che diset mò mostasg da
lutrian, cera da cavezza cont i
fuston, somenza de cazzon de quij
nostran, battasg da fà soná quel
campanon che domanda a consej tugg i
roffian, cassina de pan marsc e
balestron, prió d'i bolgiron, abbá d' vaccasg e pû guidon
falli: va' via, mò, vatt a scond,
che t'hó ciari. Note: 1. sonaj: "sonaglio, coglione": cfr.
Porta xciv, 2 « Oh quanti parentell han tiraa in pee 1 per nominà i cojon!
Gh'han ditt sonaj... ». Equivoco anche battasg 12. 3. vala... pezz: " Manca ancora molto tempo
"; cfr. Maggi Mm pr. 11, 12: « Perchè innanz, che fenissa la va on pezz
». Qui il pronome atono la è posposto per l'interrogazione. 4.
balotron: cfr. Varon 33: « Belitran, et Belitron. Un'huomo grande, ma da
poco. t, tolto dal latino Balatrones idest Homines nihili che così Varrone
l'intende »; Cherubini: "Belittran, baggeo ". L'etimo è da
ricondurre al tedesco Bettler. paramaj: " pallamaglio "; cfr.
Cherubini s.v. Coo: « Coo de fà corr uss o Coo de legn o Coo de paramaj o Coo
de perucch o Coo de romp gandoll ». 5. baj: " baie, idiozie ". Il Varese da
una parte utilizza il denominale di baiá in accezione lontana dall'etimo
animalesco, dall'altra ripropone proprio l'accezione originaria con
l'incalzante ansito di labiodentale, dentali, bilabiale. 6. fard... pé: " ti farò stare in gamba, ti
saprò tenere in riga alla locuzione fà stà " far rimanere lì,
sconfiggere si aggiunge da pé, " a piedi " in opposizione a Cc a
cavallo ". master Scinell: " mastro Cinelli "?: personaggio da
ìndividuare nella società letteraria del primo seicento milanese. Il Bellati
(cfr. Apparati p. 136) legge « master giarvell », suggerendo anche per
Scinell (sing. di scinj o zinj Zinibrus 111, 2 -) una interpretazione Cc
cervellone ". 7. Cantonscell: tra le varie osterie ' al
Cantoncello ', il Varese dovrebbe riferirsi a quella di porta Comasina,
ricordata nei Grotteschi P- 473: « Son del tridente l'academie note, / la
Buona degl'Arrosti e '1 Cantoncello »; nel Cheribizo 109 e nella bosinada «
On dì essend all'ostaria » 148 8. ona resta d'aj: " una treccia d'aglio “ 9. Che diset mò: " Che hai da ridire ",
che cosa sapresti rispondere a queste bordate. mostasg da lutrian: "
muso da luterano "; luteriano è forma normale nel '500 10. cavezzà: " accarezzare, lisciare "; cfr.
Varon 7: « Far polito, ornare ». fuston: " torsoli " dei cavoli;
cfr. son. XXII, 17 « bressaggià cont i fuston »; e Tanzi p. CXXI: « Tregh di
fuston ». 12-13. quel campanon... roffian: la campana della
torre di Napo Torriani nel Broletto vecchio, che dando il segno della sera,
era per alcuni invito al riposo, per altri al lavoro. 14. cassina... marsc:
" cesto dei rifiuti "; cfr. Cherubini s.v. Cassètta. balestron:
" pan balestrone " era un " dolce, simile al panforte (fatto con
miele, noci e fichi secchi) " (Battaglia, che esemplifica con un passo
di Buonarroti il Giovane). La connotazione spregiativa può legarsi alla
analogia fonica con baltrescon e balatron. 15-16. prió... abbá: " priore " e "
abbate " indicavano, come noto, anche i sovrani delle varie Accademie
poetiche e dei paratici artigiani. vaccasg: ci sembra preferibile pensare a
referenti femminili (non ostante vacca d'on omm), in opposizione al maschile
bolgiron " buggeroni ". guidon: « un povero, e astuto » dice il
Varon 12; dunque un imbroglione di strada, ma, si noti, incapace - fallí. 17. va'...
ciarí: l'imperativo è la risposta al Che diset mò , ma non è data dal master
Scinell: è stato zittito, e questo è tutto dire per un sonaj. |
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Allegra la mè gent che
quest l’è l’ann che l’ha d’andà tutt coss a
bullardé: se
g’hè la calastra d’i danè el
gh’è però bondanza de puttan. Só mì dovè gh’è on para de tosann Che
l’è poch che s’hin miss a fà el mestè, bisogna
visitai denanz, dedrè par
vedei come stan, s’hin froll e sann. Paresgié
donca tugg i usadij, ona
lumm on calcon on bosch de sprella, item
la ranspirûra d’i vassij, parchè
mì cred che habben la scarsella piena
de tattaritt e fottarij de
quej de recami la tenivella. On
po’ de pevarella só
che la gh’è segur, ma in tutt i cas se
gh’ trovè nett el cù degh dent el nas. |
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Havè
ona bella cà tutt tappezza, con
d’i bonn possession, d’i bon livij, senza
fiû, senza imbroj, senza fradij, e
stà su i spass e su i comodità; havè
semper la tavra paresgià con
su d’i bonn parnis, d’i pollastrij, mudà sovenz de colz e de cappij e
fa del bell’umor par i contrà ; cavalcà
on bell cavall con la valdrappa, havegh
d’i servitor da menà adré con
la scovetta da nettà la cappa; havegh
semper in borsa d’i dané da
mantignì d’i spij parchè no scappa i
mei boccon che vegna su ‘l Verzè; trovass
pû d’indarè ind
on bon legg cont ona tosa in brazz: tutt
è nient comè no tira el cazz. |
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Bibliografia
Varese Fabio,
CANZONI a cura di Angelo Stella, Massimo Baucia, Renato marchi, 1979 Medici Luigi,
LETTERATURA MILANESE dagli albori ai nostri giorni , 1947 Spagnoletti
Giacinto e Vivaldi Cesare, POESIA DIALETTALE dal Rinascimento ad oggi (2
vol.) ,1991(I) Brevini Franco
(a cura di), LA POESIA IN DIALETTO - Storia e testi dalle origini al
novecento (3 vol.), 1999(I) Beretta Claudio, LETTERATURA DIALETTALE MILANESE –
Parte I , 1985-1997 Bezzola Guido (a cura di ), POESIA MILANESE DELL’OTTOCENTO |
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